Camarun, la stalla di Polifemo

Panorami della Val Qualido

Ispirati da un testo di “Popi” Miotti e dietro suggerimento dell’amico Emilio Marcassoli, andammo a visitare questa vallata forse poco conosciuta, sicuramente oscurata dalla ben più note Val Masino e Val di Mello. Ci abbiamo trovato sentieri poco battuti e pochissime persone che li percorrevano. Pareti immense, in stile big wall americane, torrenti da attraversare e pace tutto intorno. E abbiamo trovato anche la stalla di Polifemo, così come era stata ben descritta nell’articolo del celebre scalatore.

Da quella visita è nato questo video, che cerca di esprimere la libertà e la tranquillità con cui si possono visitare quei posti, alla ricerca di pezzi di storia ordinaria degli abitanti di quella valle che meritano di essere ricordati e salvati.


 

Di seguito il testo originale di Giuseppe “Popi” Miotti – Qualido: la stalla di Polifemo

Il vecchio patriarca dei Della Mina uscì ancora una volta dalla casera nascosta fra le cascine di Cà du Sciüma al di là del torrente e guardò verso l’alto. Di fronte a lui si apriva il ripido imbocco della Val Qualido, delimitato da un’impressionante muraglia granitica. Sui pascoli superiori, non visibili dal basso, alcuni del clan stavano terminando i preparativi per abbandonare l’alpeggio; l’autunno era alle porte e le vacche dovevano essere riportate giù. Quello sarebbe stato l’ultimo anno di monticazione; il Qualido era diventato troppo difficile, troppo pericoloso, poco redditizio. Stavano finendo gli anni Cinquanta del ’900 e anche fra le montagne era giunto l’ammaliante richiamo delle città, di lavori più comodi, di stili di vita meno duri che attiravano i giovani lontano dal paese. «Eppure – si trovò a pensare – quella vita, dura e rozza, mi ha lasciato incancellabili ricordi. Mi dispiacerà abbandonare l’Alpe». La colonizzazione del Qualido da parte della sua famiglia, assumeva ai suoi occhi significati epici.

Mentre il vento staccava le prime foglie dorate di un grande faggio, il vecchio andò con la mente a molto tempo prima, quando era ancora piccolo e tutta la famiglia si era impegnata nell’impresa. Secoli prima l’alta Val Masino era appartenuta ai Melat, quelli di Mello, ma anche quando, dal 1785, i confini amministrativi erano cambiati, la proprietà della valle che aveva preso il nome del paese era rimasta loro. «Noi Melàt siamo gente dura e caparbia, ma nessuno si era mai sentito di affrontare l’impresa che è riuscita ai Della Mina» pensò con orgoglio l’anziano, iniziando a ripulire una grande caldera di rame. «Solo noi siamo stati capaci di installare un alpeggio sul Qualido, la valle più difficile di tutte».

Per realizzare quel progetto c’erano voluti anni di fatiche, da parte di tutta la famiglia, compresi quelli del ramo dei “Barba”. Strofinando il pentolone, l’anziano pastore ricordava ancora i racconti del nonno e di come fossero riusciti a trovare il percorso meno difficile verso i pascoli. L’alpeggio era sufficiente per una sessantina di mucche, ma c’era un altro problema: i pendii erano esposti alle valanghe e sarebbe stato difficile costruire baite sicure. Tradizionalmente abili nello scavo e nella costruzione di ricoveri sfruttando, in parte, grossi blocchi di granito, i Della Mina non si persero d’animo. Sul lato orientale della valle, oltre il colle del Cavalet, ove la valle si divide nei due profondi valloni che piombano in Val di Mello, videro una zona di macigni. Il luogo era sicuro e ben esposto al sole. Con pazienza allargarono gli spazi sottostanti i massi più grandi, ne protessero le aperture con muretti a secco e ricavarono l’Alpe del Qualido.

Contemporaneamente migliorarono il sentiero costruendo rampe di muri a secco su cui deposero enormi gradini di granito. Nei punti più esposti le scalinate furono protette da robusti parapetti di legno e fu costruita una casera intermedia al termine del tratto più difficile della salita, quello iniziale.

La via della transumanza partiva da Mello e, passando per Caspano, entrava in Val Masino risalendo fino a San Martino da dove entrava nella Valle di Mello. I piccoli agglomerati di baite di Cà Rogni, Panscer, Cascina Piana, Cà di du Sciüma, Rasica, erano punto d’appoggio degli alpeggi, ma consentivano anche di prolungare la stagione grazie ai ricchi pascoli del fondovalle.

Portare le mandrie sul Qualido era un’impresa e gli incidenti non erano rari: bastava che una vacca facesse uno scarto e la caduta era fatale. Il tracciato era tanto ripido da rendere impossibile l’uso del mulo per portare i rifornimenti: la povera bestia, sovraccarica, si sarebbe ribaltata. Il problema fu risolto con stoico pragmatismo: i trasporti da Cà di Sciüma all’alpeggio si sarebbero fatti a spalla e il mulo sarebbe stato utilizzato per quelli sui pascoli.

Col tempo, i Della Mina riuscirono a guadagnare un po’ di pascolo anche nella ripidissima Val della Mazza, il ramo più stretto ed impervio del Qualido, quello che scende direttamente sotto l’alpe, ad oriente del Cavalet. Poi si spinsero ancora più in là, fin sulla groppa di un grande dossone di granito, oggi noto come Scoglio delle Metamorfosi,  dove c’era ancora erba. Sulle grandi cenge alberate da maestosi faggi, i Melàt raccoglievano legna e foglie secche per farne lettiere agli animali. Per facilitare accessi e trasporti furono allora tracciati altri sentieri, quello della Zoca di föleg (conca delle foglie) e quello detto delCiudì, vero capolavoro d’astuzia e ardimento. Questa sorta di via direttissima risale la Val della Mazza, superando alcune placche rocciose grazie a gradini scavati nel granito, a tronchi infissi nelle fessure a mo’ di appigli e appoggi, a vene sporgenti di pegmatite che, fungendo da esili camminamenti, collegano i punti deboli della salita.

La stalla di Polifemo

Furono anni spesi ad ottimizzare le dure clausole di un contratto non scritto con la montagna del Qualido, ma lui, il patriarca, era fiero di quello che erano riusciti a fare. Ancor più, andava fiero della sua idea, quella del Camarun e con piacere ripercorse per l’ennesima volta le tappe di quella vicenda. Era da poco tempo diventato il punto di riferimento della famiglia quando, durante un’infelice estate, una tremenda bufera aveva disperso la mandria e le acque in piena trascinarono alcune bestie giù per la Mazza, fino in Val di Mello. Il danno fu immenso e non si poteva permettere che il fatto si ripetesse, tuttavia, data l’esposizione dei pendii alle valanghe, era quasi impossibile costruire una grande stalla. Tutti riponevano grandi speranze sul nuovo capofamiglia: ci voleva un’idea. La soluzione venne quasi per caso. Aggirandosi fra i grandi blocchi dell’alpeggio, il Della Mina scorse un’apertura sotto un grande sasso. L’antro però si chiudeva poco dopo l’ingresso. Uscito di nuovo all’aperto, il pastore prese ad analizzare il macigno, cercò di percorrerne il perimetro e con stupore si rese conto che era di dimensioni ciclopiche. «Forse – pensò – questa è la soluzione dei nostri problemi».

Il Camarun

Fu così che all’inizio del XX secolo si iniziarono gli scavi per ampliare la piccola apertura scoperta dal capo clan. Tutti contribuirono all’impresa: come molte famiglie contadine del tempo, anche i Della Mina erano numerosi, e sul monte si davano il cambio in 10, 12 membri del gruppo. Non è chiaro quante stagioni abbia richiesto l’opera; forse due, forse tre. Fu costruita sul posto una carriola in legno di larice, ruota compresa, e fu aggiunta una slitta dello stesso legno per trascinare i massi più grossi. Le speranze crescevano man mano lo scavo si approfondiva sotto l’immane blocco di granito ma, probabilmente, nessuno di loro si aspettava ciò che emerse a lavoro ultimato: un vasto “salone” naturale che avrebbe potuto ospitare al sicuro tutta la mandria. Avevano tolto circa 600 metri cubi di terra e sassi d’ogni dimensione, ricavando un salone di circa 20 metri di lunghezza, 4 di altezza massima e circa 7 di larghezza. La grande stalla ovale fu poi rifinita con un pavimento selciato e scoli per i liquami; su tutto il perimetro interno fu disposta una lunga mangiatoia di larice, con fori appositi ove legare circa 50 mucche, mentre i vitellini erano invece tenuti liberi, al centro della stalla. Alcune feritoie verso valle provvedevano a lasciar passare aria e luce mentre tutto il perimetro interno fu chiuso con un grande muro a secco. Un grosso tronco di larice disposto quasi a sostenere il monolitico tetto, serviva a reggere un tavolato che serviva da fienile.

«Il Camarun aveva funzionato benissimo – pensò l’anziano Melàt – ma da oggi sarà abbandonato. Peccato perché è costato tanta fatica.» Con semplicità il vecchio riprese le sue incombenze rivolgendo altrove i suoi pensieri, senza sapere che con quell’opera i Della Mina avevano creato uno dei più strabilianti manufatti delle Alpi.

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